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Perché i neonati italiani piangono più dei danesi, tedeschi e giapponesi?


Uno studio inglese stila la «classifica» dei singhiozzi del bebè, per durata e intensità. Il segreto è interpretarli nel modo giusto: ecco qualche consiglio per i neogenitori I neonati italiani, inglesi, canadesi e olandesi piangono più dei coetanei danesi, tedeschi e giapponesi. A dirlo è una meta-analisi dell’Università di Warwick (Gran Bretagna), pubblicata sul Journal of Pediatrics. Dieter Wolke e colleghi hanno studiato i primi mesi di vita dei bambini di diverse nazionalità, per creare una sorta di “mappa” del pianto. «I neonati sono molto diversi tra loro nel modo di esprimere la propria disperazione - spiega Wolke, coordinatore del lavoro -. Possiamo avere informazioni utili osservando il contesto di quelli che piangono meno, per capire se intervengano fattori familiari, legati alla vita intrauterina o genetici». La «regola del tre» Gli autori usano il termine “colic” (colica) per definire il pianto che dura almeno tre ore al giorno e ripetuto per almeno tre giorni a settimana e per tre settimane di fila (la cosiddetta “regola del 3” secondo i criteri del pediatra americano Morris Wessel). In inglese “colic” può indicare sia i sintomi gastrointestinali associati alle coliche, sia il pianto inconsolabile di cui non si conosce il motivo. Una condizione “estrema” risultata più frequente tra i piccolissimi (soprattutto nelle prime 6 settimane di vita, 17-25%), che tende a ridursi nella maggior parte dei casi intorno alla nona settimana di vita (11%), per scomparire quasi completamente alla dodicesima (0,6%). Più nel dettaglio, ecco i record dei Paesi finiti in cima (e in fondo) alla classifica: Canada e Olanda vincono la palma per la durata del pianto tra la terza e la sesta settimana di vita (circa 150 minuti al giorno), mentre Danimarca, Germania e Giappone risultano i “migliori” (tra 70 e 107 minuti al giorno, nelle prime 6 settimane di vita). Canada, Inghilterra e Italia sono i peggiori per frequenza di “colic” (inteso sia come coliche, sia come pianto inconsolabile), nelle prime 9 settimane di vita, rispettivamente con il 34,1%, 28% e 20,9%. I migliori sono - ancora una volta - Danimarca, Germania e Giappone (tra il 2 e il 7%). Va detto che le informazioni utilizzate nello studio sono state fornite in gran parte dai genitori tramite questionari (quindi di valore soggettivo). La media: due ore al giorno Revisionando studi che hanno coinvolto in totale 8.700 bambini di diversi Paesi, i ricercatori della Warwick University hanno anche ricavato valori più generali: nelle prime sei settimane di vita, in media, i neonati piangono due ore al giorno (tra 117 e 133 minuti). La quantità di singhiozzi aumenta un po’ nelle settimane successive, fino ad arrivare al picco della sesta settimana (2 ore e 15 minuti). Quindi inizia una graduale riduzione, fino alla media di 68 minuti calcolata tra la decima e la dodicesima settimana. È, secondo gli autori, la normale “curva del pianto” che accomuna tutti i bebè del mondo, anche se la sua esistenza non è mai stata provata scientificamente. Ma si tratta, appunto, di valori medi, che non rendono l’idea delle infinite possibilità: esistono bambini che piangono “solo” mezzora al giorno, altri che arrivano anche a cinque ore, sottolineano i ricercatori inglesi. Interpretare il pianto Ma c’è una cosa importante da sapere, ovvero che il pianto dei neonati non sempre è associato al dolore. «Nelle prime settimane di vita è un modo per comunicare, anche la fame o il sonno, non necessariamente una condizione di disagio o sofferenza - chiarisce Andrea Dotta, responsabile del reparto di Terapia intensiva neonatale dell’Ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma -. Inoltre la definizione di “pianto inconsolabile” è soggettiva, quello che vede un genitore può essere diverso da quello che vede un medico. Può esserci un aspetto psicologico-culturale: il fatto che i neonati italiani piangano di più (secondo lo studio inglese) può derivare dal fatto che siamo genitori più “attenti” ai loro bisogni, a volte magari anche troppo». Insomma, le lacrime del bebè vanno interpretate. «I genitori devono imparare a conoscere il proprio bambino - prosegue Andrea Dotta - e può essere utile tenere presenti alcune semplici regole. Il pianto legato alla colica gassosa o al reflusso gastroesofageo (quindi a un dolore fisico) insorge in modo improvviso e si associa a una flessione delle gambe o un inarcamento della schiena, diminuendo d’intensità man mano. Il pianto da colica tipicamente avviene nel tardo pomeriggio, mentre quello da reflusso dopo ogni pasto. Difficile dire a che età si risolvono questi disturbi che sono comunque, è bene sottolinearlo, fisiologici. Diverso il pianto legato ai bisogni essenziali: teniamo presente che il neonato singhiozza appena inizia ad avere fame o sonno, non quando è allo stremo». L’allattamento al seno Una questione importantissima è legata al tipo di alimentazione. «L’Italia purtroppo non brilla per numero di neonati allattati al seno - chiarisce Dotta -. L’attaccamento al seno è un elemento positivo per diversi motivi: riduce le coliche gassose, rafforza il contatto con la madre. La richiesta del seno da parte del neonato è anche indipendente dalla fame e questo può essere un motivo di pianto, anche intenso: quello che chiede il bebè a volte non è di mangiare, ma di stare attaccato alla mamma. Di contro, l’estremismo è sbagliato: se il latte materno non è sufficiente per l’accrescimento del bambino, è bene integrarlo con latte in formula, soprattutto nelle prime settimane di vita. È molto importante che il bambino si attacchi bene al seno: al Bambino Gesù, per esempio, abbiamo un centro interamente dedicato all’allattamento e uno sportello telefonico per le neomamme che sono già state dimesse dopo il parto». Consigli per i neogenitori Quali sono invece i criteri per capire quando preoccuparsi? «Il pianto che deve far scattare un campanello d’allarme è quello legato a uno scarso accrescimento del neonato - dice Andrea Dotta -. C’è poi un tipo di pianto, acuto e ininterrotto, in cui si nota anche un diverso colore della pelle del bambino, che tende a scurirsi su volto e corpo: in questo caso, anche in assenza di febbre, potrebbe esserci un’infezione, per esempio delle vie urinarie. Il bebè può essere freddo al tatto, perché è in atto un disturbo della termoregolazione. In queste situazioni, è bene rivolgersi al neonatologo o al pediatra». Infine, qualche consiglio per affrontare - in assenza di motivi di preoccupazione - il fisiologico pianto del neonato: «Primo, non andate nel panico - suggerisce Dotta -, perché lo stato d’animo del genitore influenza fortemente quello del bambino. Prendetelo in braccio, fategli dei massaggi alla schiena, ai piedi, alla pancia. Se possibile, è di grande aiuto seguire un corso di massaggi neonatali. Attaccatelo al seno: l’allattamento e il contatto fisico con la mamma liberano le endorfine positive, che fanno sentire meno il dolore. Infine, entrate in sintonia con i ritmi del bambino, non angosciatevi se nelle prime settimane si sveglia spesso di notte chiedendo il seno: è un istinto che fa aumentare la produzione di latte e che poi passerà naturalmente».

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